Nel bel mezzo del pomeriggio torrido prendo la vespa e faccio una corsa fino ad Asakusa, un quartiere storico a est di Tokyo. E’ una cosa che mi procura un piacere intenso. Le strade sono vuote, l’asfalto rilascia un calore irreale, la gente si muove al rallentatore, i negozi e le case sono spalancati in attesa del più piccolo refolo. Asakusa è una delle poche zone di Tokyo in cui ci si sente in un paese anticamente asiatico. Ci sono teatri, edifici fatiscenti, mendicanti, unto ovunque, un luna park che smuove gli stessi sentimenti di quando si vede la strada di Fellini e davanti c’è un cinema porno con i manifesti porno.
Cammino davanti al tempio Sensoji, quello famoso con tutti i negozi davanti, e guardo gli alberi nello spiazzo antistante Mi piacciono molto perché conservano delle bruciature, sono come delle ustioni provocate dai feroci bombardamenti americani, ma sono vivi e gagliardi. Mi perdo in pensieri oziosi, immagino i posti che adesso stanno venendo bombardati nel mondo, mi chiedo se tra sessant’anni qualcuno ne guarderà gli alberi e le città che sono sopravvissute o rinate.
Sento qualcuno che mi si rivolge con un “skiuzmi!”: sono dei ragazzi delle medie chiaramente in gita d’istruzione nella capitale. Devo avere la faccia tipica di quello che non rifiuta mai una foto insieme, perché mi si schierano attorno gesticolando con la macchina fotografica e dicendo “shashin” (che significa fotografia). Evidentemente di inglese conoscevano solo l’intro. Chiedo di dove sono e mi dicono che vengono da Fukushima. Sono tutti allegri, sorridenti, gasati anche se fa un caldo che si muore. Sembrano dei fuscelli appena sbocciati a cui non interessa niente altro che vivere.

Quando sono andato nel Tohoku un paio di mesi fa